La pregnanza della storia e della bellezza emergono dalla rete delle relazioni, non da paradigmi canonici
La mostra Venetkens, della quale ci siamo occupati nel 2013 su “Tempo e Arte” (si veda il link inserito in questo articolo), che si è tenuta al Palazzo della Ragione di Padova nello stesso anno, è considerata una delle iniziative culturali italiane di maggior successo in tema di archeologia. Uno dei pezzi forti di quell’esposizione, nelle cui teche vi erano più di duemila reperti, è stata la “Situla dell’Alpago”, scoperta nel 2002 da volontari locali (qualcuno al tempo della mostra l’ha definita perfino “la superstar di Venetkens”).
Lo scorso 14 gennaio si è tenuto a Longarone un convegno organizzato da Eugenio Padovan (intrepido archeologo del Bellunese, già funzionario della Sopraintendenza ai Beni archeologici, ma soprattutto appassionato e strenuo sostenitore delle migliori iniziative volontaristiche locali), al quale ha partecipato il neo-sopraintendente all’Archeologia, Belle arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Venezia, e le province di Belluno Padova e Treviso, Andrea Alberti.
Dalle relazioni presentate da studiosi e appassionati, tutti originari delle valli bellunesi (di cui riporteremo a breve i passi salienti), è soprattutto emersa l’importanza del valore della sensibilità e del radicamento sul territorio, quando ovviamente associata a corrette e profonde competenze specifiche (anche se non necessariamente acquisite in sede accademica, ma sotto il non meno rigoroso impulso della passione personale).
E non c’è da stupirsi, visto che è Martin Heidegger il quale ha efficacemente indicato che la consapevolezza origina dal percepirsi come elementi contestualizzati, oltre che contestualizzanti del Mondo, il nostro esser-ci corrisponde alla piena coscienza di essere al mondo.
Ne deriva necessariamente l’impulso allo svolgimento di quelle attività umane che Heidegger raccoglie nel termine Cura.
Per avere cura del mondo, bisogna pertanto essere consapevoli di essere al mondo. Se tale osservazione dovesse apparire banale, bisognerà chiedersi allora perché una grande moltitudine di soggetti trascurino l’importanza non solo di prendersi cura, ma perfino di non offendere il mondo.
Si vedrà allora che vi sono ragioni che riguardano disordini della sfera cognitiva e/o di quella affettiva, in seguito alle quali si genera l’illusione che l’aumento di
profitto derivante da atteggiamenti di trascuratezza, o lesivi del mondo possa essere un’opzione disponibile.
Come ha di recente ricordato su “La Stampa” il collega Mimmo Càndito, il linguista e filosofo Tullio De Mauro distingueva l’analfabetismo strutturale da quello funzionale, individuando nel secondo l’incapacità di comprendere, ancor prima di saper elaborare, ciò che si è visto, letto, o sentito, e dimostrava che in Italia gli analfabeti funzionali superano abbondantemente la quota del 70%, ivi inclusi anche diversi soggetti dotati di laurea.
Ma penso che ancor prima di prendere in considerazione il termine analfabetismo riconducibile all’acquisizione delle capacità che derivano (o dovrebbero derivare) dalla scolarizzazione, si possa e si deva prendere in considerazione un altro tipo di analfabetismo, che chiamerò analfabetismo intellettivo o della sensibilità intellettiva (il quale, come già accennato sopra, andrà collegato alla sfera affettiva).
Bisognerà quindi prendere in considerazione un termine che molti stanno cercando di far passare di moda (col pretesto di farlo apparire solo antiquato e retorico, e quindi svuotandolo del suo significato proprio etimologicamente inteso).
Mi riferisco alla terra dei padri in cui si viene al mondo, e alla quale ci si sente per natura hedeggerianamente legati.
L’affettività verso la propria terra di origine (patria) è il primum movens che implica la tensione dell’intelletto alla conoscenza dell’intorno, facilitata e incrementata dalle necessità pratiche dell’esistenza.
L’esistenza è altro termine che la filosofia analizza e spiega con la locuzione ex-sistere, ovvero uscire dal nulla. L’esistenza dell’individuo si svolge necessariamente nel fluire del tempo e delle relazioni con il mondo.
La perpetuazione dell’esistenza in una residenza comporta quindi la necessità di sviluppare delle attività relazionali pratiche (prassi) collegate alle opportunità contestuali locali, sviluppando colture e culture, che realizzano ricchezza territoriale e antropica.
È interessante notare che il termine opportunità, denota la contingenza e il luogo che comporta profitto, ma è simultaneamente investito del significato di ciò che è opportuno, e non quindi dell’opportunismo (parola estremizzata dal suffisso -ismo che in questo caso emblematico denatura il significato originario del termine, indicando appunto ciò che è opposto a quanto è opportuno).
Dalla Cura, dalle colture, e dalla cultura che originano invece dalla prassi e dal senso di ciò che è opportuno, originano gli ideali della vita civile ovvero della civiltà tipica di un popolo e di una nazione, che sono molto ben sintetizzati nei termini tedesco Kultur, e francese Civilisation.
Ciò che fin qui si è visto, è evidente che non può realizzarsi se non da un humus integrato, non può che essere frutto della spontanea derivazione della cultura dalla natura (ricordando qui inevitabilmente otre al grande Ernst Cassirer anche l’antropologo Brunetto Chiarelli).
Insomma, il senso civico non può che essere conseguenza della prassi, da cui origina la Cultura, dalla quale scaturisce l’identità civile radicata sul territorio che riconosciuto come patria.
Il termine “patria”, talmente genuino e importante, da essere associato dall’antichità direttamente al concetto di “sacro”, è purtroppo passibile di essere inteso come metafora trascendentale, che genera, la retorica dell’idealismo assoluto, con conseguente svuotamento di valore del termine medesimo. Una volta privato il termine patria di significato e di valore unito al collegamento pratico (e patrico) a un territorio, si potrà trattare qualsiasi posto in senso a-morale (separato dalle necessarie implicazioni morali) e generano consenso a-morale e speculativo.
L’atteggiamento culturale tuttora sottostante a retaggi aristotelici che ha generato l’attuale frammentazione specialistica, responsabile della creazione di discipline, gelose della propria autonomia, e pretesa priorità, rende spesso difficile il sereno confronto metodologico in sede accademica, che è poi referente della gestione politico-culturale del territorio.
Così, come ha recentemente osservato lo storico dell’arte Tomaso Montanari a proposito dei beni storico-artistici e archeologici “la scuola non ci dà gli strumenti utili ad aprire gli occhi sul nostro territorio provocando piuttosto cecità rispetto al tessuto continuo del nostro paese, e facendoci puntare gli occhi solo su alcune emergenze. Nella proposta di riforma costituzionale, bocciata dall’ultimo referendum, tornava la tutela dei beni paesaggistici al posto della tutela del paesaggio, secondo un’idea puntiforme di “capolavori assoluti” di “luoghi simbolo”, che fanno perdere di vista il concetto di tessuto continuo, sul quale proprio gli artisti ci aiutano a guardare: gli sguardi devono andare oltre ciò che le guide canoniche suggeriscono di vedere; è importante la rete delle relazioni e non le singole cose, i valori relativi di longhiana memoria, e non pretesi valori assoluti”.
Insomma, la sclerosi manualistica delle tesi specialistiche, può perfino rischiare di uccidere la ricerca sotto i colpi della burocrazia.
L’opera di conservazione e valorizzazione dei beni culturali implica invece moralmente il mantenimento della contestualizzazione storico estetica, secondo l’esperienza e l’espressione della civiltà propria del territorio, elementi i quali consentono la migliore lettura culturale complessiva, e non di rado sono in grado di orientare in modo massimamente proficuo la ricerca.
Ricollegandoci pertanto all’apertura di questo articolo, e ritornando all’origine della ricerca (che giammai può prescindere dall’obbiettivo funzionale della corretta fruizione del bene storico archeologico), dal punto di vista epistemologico andrà assolutamente rivalutata l’importanza dell’integrazione psicoestetica tra facoltà percettive, intuitive, e sintetico-rappresentative, quali fattori su cui basare il confronto e lo svelamento dei valori orientativi della metodologia della ricerca.
Tali facoltà non possono che essere facilitate in quelle persone autoctone che (per recuperare anche la terminologia di De Mauro) risultino spontaneamente alfabetizzate soprattutto sotto il profilo della sensibilità morale e delle capacità funzionali, capacità le quali, insieme alle evidenze documentali rendono possibile l’elaborazione di dati, e sintesi, che, in sede accademica, se non altro richiederebbero moto più tempo per essere raggiungere.
Come giustamente ha rilevato Carlo Rovelli nel suo ultimo saggio “Il mondo non è come ci appare”, i libri di testo che si studiano nelle scuole riportano le formule della relatività senza il minimo cenno agli esperimenti mentali di Einstein dai quali sono scaturite. Molti studenti trovano quindi ostico lo studio della fisica proprio perché la scuola impone loro un approccio innaturale.
L’approccio alla conoscenza tramite gli esperimenti mentali, che rappresentano un pratica scientificamente consolidata in fisica e filosofia, stimola infatti la forza teoretica che è una facoltà mentale naturale dell’uomo, la quale rende abili a gestire la cultura grazie all’alfabetizzazione funzionale.
Lo stesso Einstein: metteva in guardia dal rischio di perdita di prospettiva etica sugli aspetti fondamentali della realtà quando osservava che “senza filosofia si perde la visione d’insieme e della prospettiva (albero, bosco)”, il che significa che la mancata relazione tra conoscenze parziali impartisce solo nozionismo che non è altro che cultura denaturata; la perdita di tropismo con l’intelletto e quindi di attività teoretica non può che produrre apprendimento e gestione anaffettiva dei dati, che in nessun caso può essere considerata cultura.