E se anche la coscienza fosse figlia delle stelle?
Mio Maestro, è stato Vincenzo Tagliasco, che era un bioingegnere, considerato in Italia il padre della robotica. Come ogni scienziato di buonsenso per inventare teconologia studiava soprattutto la natura, e ancora oggi non saprei decidere se Vincenzo, da ingegnere conoscesse la neurofisiologia meglio di quanto Valentino Braitenberg, che era neurofisiologo, sapesse inventare e costruire automi.
Non mi risulta (ma spero di essere molto male informato) che attualmente ci siano in giro di nuovo personaggi come quelli citati.
Vincenzo non sopportava la trascuratezza scientifico-filosofica con la quale autorevoli personalità scientifiche utilizzavano espressioni del tipo: “il cervello vede”, “il cervello percepisce”, “il cervello interpreta”, eccetera, in sostanza considerando il cervello coincidente con la soggettività. Quando reagiva, nella migliore delle ipotesi otteneva risposte del tipo “per divulgare però bisogna farsi in qualche modo capire”…
Pessima risposta, ovviamente, a meno che non si accetti di fare controinformazione, ma il peggio è che, invece, nella maggior parte dei casi, chi attribuiva al cervello la piena identità del soggetto, non si rendeva nemmeno conto perché la cosa potesse essergli rimproverata, prevalendo tra i medici un chiaro atteggiamento riduzionista.
Il riduzionismo rischia però di imbattersi in notevoli paradossi, primo dei quali, nella storia del pensiero scientifico-filosofico è individuato nel “cogito” cartesiano. Ancora peggio se si pensa di farla franca, osservando che, senza la possibilità di ricondurre in toto l’essere alla materia e ai suoi sistemi, non rimane altra scelta: la ricerca scientifica prevede infatti di rinunciare a esplorare nuove vie di indagine solo quando dovessero risultare invalidate, non certo di precludersi la necessità di reperire nuove vie di indagine, se in un determinato momento sembra che non ve ne siano. Solo studiando l’universo è risultato evidente che dentro al corpo dei viventi scorrono elementi chimici, che sono il risultato delle fusioni nucleari avvenute durante i cicli evolutivi delle stelle: a chi sarebbe venuto in mente di studiare le stelle per scoprire se lo ione del ferro inserito nel gruppo prostetico della nostra emoglobina avesse per caso derivazione astrale?
A questo punto pare plausibile anche ipotizzare che la coscienza potrebbe non riguardare solo una condizione esclusivamente intima del cervello, ma essere costituita da un “ambiente” cognitivo spazio-temporale, in cui sono inclusi gli elementi dai quali proviene l’energia che produce gli stimoli sensoriali.
Per quanto materialisti si possa essere, non si ammetterà mai di “non possedere coscienza” durante il proprio normale stato di veglia. Eppure la coscienza non si vede, non si tocca, non emana alcun odore, non si può assaggiare gustandone il sapore, non emette suoni.
Si potrebbe obiettare che astratto è anche il termine “sensazioni”, le quali sono però il risultato della diretta interazione appunto col mondo sensibile, e, che, pertanto – per quanto riguarda le sensazioni – il nostro esperiente materialista sarà disposto ad accettarne l’esistenza, o perlomeno il termine, al fine di poter comunicare le qualità percepite.
Con il termine “sensazioni”, infatti, il nostro materialista non esiterà a identificare lo stato finale del processo quanto mai concreto, rilevabile e misurabile, che, partendo da un agente esterno, stimola terminazioni nervose, le quali portano il segnale a una determinata area cerebrale.
Non potendo però fare altrettanto per quanto riguarda la coscienza, si dovrà limitare, invece, a enunciare un asserto logico condivisibile del tipo “percepisco, dunque ho coscienza sensibile/sono cosciente/esisto”. Non si può infatti essere certi di esser concreti e vivi senza averne, appunto, coscienza.
Proviamo allora a chiedere al nostro soggetto materialista di indicarci dove risieda la sua coscienza. Egli affermerà che gli è/la “sente” connaturata e intrinseca, e, probabilmente, indicherà il cervello quale “organo custode”, in quanto “generatore” della medesima. Ciò senza che, in buona fede, gli possa sembrare di sostenere nulla di strano, poiché, come di norma tutti gli uomini, è dotato di un criterio autoreferenziale nella percezione del sé.
Ma, allo stesso tempo, se per indicare le sensazioni aveva individuato un processo, ora è in difficoltà, e, contrariamente a quanto asserisce di solito (quando sostiene di rifiutare di prendere in considerazione qualsiasi entità metafisica), pretende di possedere una sorta di “anima funzionale” definendola “coscienza”, riconducendone la genesi al processo da cui emergono le sue percezioni, ma intendendola poi come una sorta di entità immanente e statica.
Sarà per lui da questa coscienza intima, quindi, che potrà avere cognizione del suo schema corporeo, in cui riconoscere destra, sinistra, alto, basso, davanti, dietro, prossimale, distale, interno esterno (parametri sempre presenti almeno in quella parte di coscienza chiamata “inconscio”). E come negarlo? Senza questi riferimenti nessuno potrebbe percepirsi integro e unitario, e chiunque si sentirebbe perso, così come ci si sentirebbe persi in un mondo costruito con una geometria senza rette parallele (ovvero non-Euclidea).
Il nostro soggetto (per quanto materialista) al liceo accettò di buon grado, che le rette parallele si possano incontrare all’infinito, anche senza poterlo dimostrare o andare a verificare di persona (appunto all’infinito); ma poi, all’università (supponendo che abbia frequentato una facoltà scientifica), altrettanto di buon grado accettò la logica delle geometrie non euclidee, così come quella della teoria della relatività, anche se opposte alla natura della sua “coscienza sensibile” autoreferenziale.
Lo stesso signore, nondimeno continuerà a “sentire” il proprio corpo distinto in una parte destra e in una sinistra, senza essere in grado di dare una definizione di cosa intende per “destra” e per “sinistra” se non facendo ricorso a operazioni ostensive, o relazionando il proprio corpo alla rotazione terrestre, della quale invece non ha percezione, e tantomeno coscienza continua.
Insomma, possediamo evidentemente un codice di riferimento interno “ad hoc”, che non ha nulla di oggettivo, e per averne dimostrazione basta mettersi davanti allo specchio. Lo specchio infatti riflette la nostra immagine con fedeltà rispetto ai punti cardinali terrestri, ma non certo alla destra e alla sinistra, che fanno parte del nostro codice di riferimento interno. Se dovessimo chiederci come mai nell’immagine riflessa alto e basso non sono invertiti, mentre la destra e la sinistra sì, istintivamente entreremmo in confusione senza renderci conto, appunto, che stiamo mescolando un codice di riferimento a un sistema esterno, con quello nostro intimo. Solo perché siamo abituati dall’esperienza pregressa non troviamo nulla di strano nel vedere riflessa nello specchio la nostra faccia, e trascuriamo di realizzare che lo specchio piano appeso alla parete del nostro salotto, ruota di 180 gradi la nostra immagine invertendo necessariamente la destra con la sinistra, ma non capovolge l’immagine.
Morale: può essere ragionevole asserire attraverso i nostri parametri autoreferenziali tanto poco affidabili alla speculazione epistemologica (per quanto comodi e indubbiamente utili nella vita pratica quotidiana) che la coscienza non possa risiedere altrove, se non all’interno del corpo?
Da una parte nulla impedisce che sia così, ma nulla può garantirci che non si tratti di una pura illusione autoreferenziale. Se la coscienza fosse metafisica non avrebbe alcun senso parlare di una sua ubicazione e nulla vi sarebbe da indagare da parte della scienza; se invece fosse fisica non parrebbe proprio appartenere al mondo fisico per noi percepibile che ci è familiare, ma avrebbe una fisica propria, e tutta da scoprire.
Eppure, finora la speculazione filosofica e scientifica non aveva mai posto in dubbio la “sede” della coscienza, considerandola interna al cervello, pur senza poterne dare alcuna prova. Le tecniche più avanzate di scansione del sistema nervoso centrale non riescono che a fornire alcuni dati, che consentono di localizzare certi processi cognitivi, ma senza poter attribuire agli eventi rilevati una valenza diversa da quella puramente fenomenica.
Nulla vieta invece di pensare che la coscienza possa avere un’estensione più allargata, viaggiare forse (ed è certamente fantascienza, o fantacoscienza che dir si voglia) sui miliardi di neutrini che attraversano costantemente il nostro corpo, e che non vengonono fermati nemmeno dai materiali più densi, per dar luogo a una fisica dei rapporti, che includono l’oggetto esterno percepito e il soggetto percipiente, invece di essere confinata solo nelle strettezze della scatola cranica, nonostante che essa venga “sentita” dagli uomini come un’entità assolutamente intima.
Tale ipotesi è intuitivamente conflittuale con l’interpretazione della coscienza che abbiamo visto emergere dal “sistema autoreferenziale”, né più né meno di quanto lo fossero la teoria della relatività e le geometrie non euclidee.
Almeno per non correre il rischio di non esplorare una pista pervia all’indagine scientifica e immune dai possibili condizionamenti della mente autoreferenziale, gli scienziati devono oggi cercare col massimo dell’attenzione e della buona fede di verificare (o falsificare) la teoria dell’Onfene di Manzotti e Tagliasco, secondo la quale si può costruire una “teoria della coscienza allargata”, liberandosi dai vincoli imposti dall’intuizione autoreferenziale.