Un nuovo universo per la neurologia

La scienza fa maggiori progressi proprio quando si generano tra i ricercatori contrasti e perplessità conseguenti a nuovi risultati in disaccordo con le precedenti teorie. Ma, nella storia della scienza talora accade che prevalga una di due tesi contrapposte, solo perché viene successivamente dimostrata, come nel caso della famosa diatriba tra Golgi e Cajal, i quali, evidenziando, ciascuno col proprio metodo di colorazione le reti nervose, ricevettero il Nobel nel 1906. Entrambi. Nonostante fossero in antitesi, poiché all’epoca era impossibile verificare che fosse Cajal ad avere ragione. Infatti con i sali d’argento di Golgi i nervi apparivano in struttura reticolare continua come fili elettrici collegati tra loro (e ciò risultava molto logico, essendo ormai chiaro che i nervi fossero dei conduttori); mentre col metodo di Cajal (effettivamente più raffinato) si riuscivano a distinguere i singoli neuroni in contiguità, ovvero interrotti da un piccolo spazio (oggi noto come intersinaptico), che all’inizio del ‘900, non poteva che apparire come una difficoltà rispetto alla conducibilità del sistema nervoso. Si dovette aspettare il 1951, quando i microelettrodi intracellulari (in epoca moderna è la tecnologia che aumenta le facoltà sensoriali umane ad assumere un ruolo fondamentale per la ricerca) consentirono di registrare le differenze di potenziale tra ambiente interno ed esterno alla parete cellulare di alcuni motoneuroni, e si iniziò a capire cosa accadesse quando avviene la trasmissione dell’impulso neuromuscolare.

Il neurochirurgo Domenico d'Avella
Il neurochirurgo Domenico d’Avella

Altre volte, invece, due teorie si fondono in una sola e più completa spiegazione, grazie magari alla scoperta di un “non scienziato” come Michael Faraday, personaggio di grande intuizione, anche se di scarse conoscenze in fatto di matematica (ma fortunatamente amico di James Maxwell, il quale consolidò con le proprie equazioni la teoria del campo elettromagnetico).

Ma nella grande maggioranza dei casi, si verificano quelle curiose circostanze fortuite che mettono sulla buona strada ricercatori che tentano di dimostrare tutt’altro (talora perfino il contrario della tesi corretta). Cioè accade spesso che gli scienziati vengano colti dalla scintilla della serendipità, commettendo qualche buon errore procedurale, o divenendo spettatori di eventi del tutto fortuiti…

In ogni caso è storicamente dato dall’antichità che la spinta alla ricerca ha un’origine puramente teorica, che le teorie scientifiche rappresentano la teoretica degli scienziati, e che il Rinascimento ha consentito loro di mettere a punto uno strumento formidabile: il “metodo scientifico ipotetico-deduttivo” suffragato dall’osservazione della prova sperimentale. Un’arma straordinaria nelle loro mani, per cui, dal sedicesimo secolo della nostra era, i ricercatori (tecnologia permettendo) non dovrebbero aver bisogno di nient’altro per procedere con sicurezza verso i loro obbiettivi.

Tecnologia permettendo… ovvero vi sono àmbiti in cui l’applicazione dell’osservazione diretta, e del metodo sperimentale risultavano fino a pochissimo tempo fa molto improbabili (se non impossibili). La neurologia è quindi rimasta per molto tempo particolarmente penalizzata rispetto alla ricerca medica di altri settori: l’aumento delle conoscenze in fatto di neurologia si poteva basare essenzialmente su eventi singolari che fortuitamente portavano con sé il contributo di preziose informazioni oggettive sul cervello (emblematico il caso dell’incidente dell’operaio delle ferrovie americane Phineas Gage, il quale “andando a spasso”, dopo il suo incidente, con una sbarra di ferro che gli trapassava il cranio, consentì a Carl Vernicke di ipotizzare la localizzazione di una specifica area del linguaggio; così come furono fondamentali per Paul Broca quel paio di suoi pazienti con una particolare forma di afasia, e deceduti in tempo sufficiente da consentire al loro medico di eseguire le autopsie, che lo hanno portato a ipotizzare l’esistenza di un’unica specifica area dell’udito.

Per non dire quanto risultasse ancor più difficile, rispetto a oggi, il raggiungimento di qualche risultato oggettivo in fatto di psichiatria, dove le infinite peculiarità che caratterizzano lo sviluppo della personalità di ogni individuo, ben difficilmente possono essere rivelate… nemmeno ex-post sul tavolo autoptico… Per cui la ricerca psichiatrica in un passato non così lontano, si è sentita autorizzata a sperimentare su pazienti umani vivi camicie di forza ed elettroshock quali provvedimenti “terapeutici”. E basta leggere l’ultimo libro di Vittorino Andreoli “La mia corsa nel tempo” per rendersi conto quanto la moderna psichiatria in Italia sia nata nell’immediato secondo dopoguerra più per rispetto dell’iniziativa di un facoltoso e volontario “paziente” artista, che per l’intelligenza della clinica ufficiale del tempo, la quale si è sostanzialmente limitata a un “laissez faire”… a consentire all’allora giovane studente Andreoli di occuparsi di una nuova strana sperimentazione sui “matti” che venivano lasciati dipingere…

Ma la stessa neurologia era certamente ancora molto confusa nel 1953, quando il neurochirurgo William Scoville, esperto in lobotomia frontale, decideva di operare un epilettico, includendo per la prima volta nell’intervento anche l’ablazione dell’ippocampo, e ottenendo il risultato di privare il paziente della memoria recente. La neurochirurgia rimase ferma a quel tipo di sperimentazioni almeno fino al 1981, quando veniva assegnato (in condivisione) il Nobel al temerario Roger Sperry, autore del “cervello diviso” (avendo operato per primo la callosotomia finalizzata a “guarire” sempre un paziente epilettico). La motivazione fu: “per le sue” – (discutibili?) – “scoperte sulla specializzazione funzionale degli emisferi cerebrali”… Per fortuna c’era però anche un segnale di cambiamento a riguardo dell’atteggiamento della ricerca neurologica: insieme a lui ricevevano il premio David Hubel e Torsten Wiesel, i quali senza alterare chirurgicamente e irreversibilmente alcun cervello (nemmeno quello delle cavie) avevano invece dimostrato il sofisticato funzionamento della corteccia visiva!

Ma oggi quali sono le opportunità e le difficoltà della ricerca per quanto riguarda la neurologia? lo abbiamo chiesto a Domenico d’Avella, direttore della cattedra di Neurologia dell’Università di Padova: “Del cervello ancora oggi abbiamo cognizione solo dell’ultimo cristallo di ghiaccio che sta all’apice della punta dell’iceberg, se vogliamo prendere la metafora dell’iceberg quale rappresentazione della conoscenza in fatto di neurologia… anche se, in questi ultimi dieci anni, si sono fatti enormi progressi, ma grazie alle tecnologie informatiche, e, in particolare, alla risonanza magnetica funzionale, che consente di osservare in vivo la fisiologia del sistema nervoso centrale. Possiamo cioè finalmente entrare nei dettagli delle funzionalità cerebrali, e abbiamo quindi appena superato la soglia di una rivoluzione concettuale straordinaria grazie alla bioingegneria, e non certo grazie alla neurologia o alla neurochirurgia tradizionale: consideri che Harvey Williams Cushing, vero antesignano della neurofisiologia moderna, affermava che c’è un fisiologo nel cuore di ciascun neurochirurgo. In sostanza manipoliamo l’organo (di cui ancora conosciamo solo il frammentino ultimo della punta dell’iceberg che sta sotto – lo ripete) che controlla la fisiologia di tutto l’organismo”…

Ma non è il caso di preoccuparsi troppo per come suona questa ultima affermazione di d’Avella, se si considerano i risultati raggiunti dalla neurologia padovana: il tono appare piuttosto essere quello della grande modestia che spesso caratterizza i bravi scienziati, sempre molto prudenti a non enfatizzare i loro ultimi risultati rispetto allo stato dell’arte. Infatti è evidente, che, se anche in neurologia la famosa legge della coerenza tra morfologia e funzione è certamente importante per la comprensione della fisiologia degli organi, e ultimamente stiano emergendo sempre nuovi dati circa i rapporti tra diverse aree cerebrali, che si aggiungono a ormai precise conoscenze neuroanatomiche, è vero anche che in questa scienza, non si può davvero dire che ciò sia sufficiente, per quanto incoraggiante. Infatti, qui l’unità funzionale è il neurone, e nel corpo umano ce ne sono centodieci miliardi, connessi in una rete intricata in modo letteralmente inimmaginabile, al fine di essere in grado di donare al cervello una eccezionale plasticità e “vicarianza”… tanto per parafrasare il titolo di uno splendido libro di Alain Bertoz.

“Ramòn y Cajal – spiega però d’Avella, e qui ci sono buone notizie – considerava i neuroni immutabili, e attribuiva loro una sorta di eternità, pensando che si nascesse con un patrimonio limitato di cellule nervose, che molte si dovessero perdere durante l’esistenza, ma, che, anche quando si moriva di vecchiaia la grandissima maggioranza di quelle originali fossero ancora attive – cosa in parte vera; e Broca affermò che l’essere umano parla con l’area che sta nel piede della terza circonvoluzione frontale sinistra – anche questa, cosa parzialmente vera -; ma oggi possiamo affermare che la neurogenesi è un fenomeno di osservazione comune; che la possiamo modulare; che la logica locazionista di Broca – espressione massima dei concetti lombrosiani (secondo i quali sarebbe stata la conformazione fisica a determinare il carattere della persona, e che hanno generato la frenologia) non è vera. La localizzazione locazionistica di Broca l’abbiamo mutuata in una visione odotopica del cervello: all’interno della scatola cranica c’è un sistema di circuiti in rete, attivi anche quando non facciamo niente – per intenderci non solo nel sonno, ma anche quando siamo sotto anestesia – e le funzioni del cervello possono essere vicariate quando specifiche strutture sono affette da patologia, o non sono più funzionanti. Si aprono quindi enormi spazi verso prospettive di riabilitazione. Ma per capire tutto questo non sono stati sufficienti i neurologi e i neurochirurghi, o i neuroanatomisti, ma sono state indispensabili le moderne apparecchiature elettromedicali, che consentono la diagnostica per immagini, basate sulle scienze computazionali”.

Nonostante che tutto questo sia ormai ineluttabile realtà, di neurologi e neurochirurghi affezionati alla “vecchia maniera” ce ne sono ancora tanti, e anche a Padova, in ambiente accademico, si sono dovute superare parecchie resistenze per invertire la tradizione metodologica, e chiamare a ricoprire la cattedra di neurologia – già da qualche tempo vacante – un neurologo moderno: “non più corrispondente, tanto per capirsi, alla figura stereotipata del clinico con barba, papillon, e martelletto in mano. Si tratta di Maurizio Corbetta – rivela d’Avella –, il quale è stato addirittura irriso dalla comunità neurologica italiana, che ha tentato di emarginarlo, tacciandolo della fama di “riabilitatore” e di “neuroradiologo”, a causa dei suoi interessi scientifici fortemente incentrati sulla connettività cerebrale… è uno studioso da venticinque anni fuori dalle regole accademiche italiane, ma siamo riusciti ad attrarlo comunque dagli States verso il la nostra città, nettamente in controtendenza rispetto a quanto solitamente avviene, e dal primo ottobre, superata ogni avversità, ha preso servizio presso il nostro ateneo”.

L’episodio a lieto fine è stato riferito per sottolineare che anche in Italia finalmente si può riuscire ad apportare qualche cambiamento alla politica accademica, e che, come nel ‘500, anche oggi Padova si distingue come polo attrattore di cervelli. Infatti l’ateneo patavino ha acquisito non solo Corbetta, con tutta la sua esperienza sulla connettività, che, a Padova, in team con d’Avella, potrà proseguire le sue ricerche su una costosa apparecchiatura diagnostica per neuroimmagini di ultima generazione (PET/MR unica in Italia), in grado di integrare le immagini della Pet e quelle della risonanza magnetica; ma anche la neurologa Petra Ritter ha accettato, dopo aver vinto nel 2014 un Erc Grant molto importante, di raggiungere l’Università di Padova, rispondendo alla chiamata del rettore Rosario Rizzuto che le ha offerto un posto da professore di prima fascia.

Redazione

La redazione di Scienzaveneto.it