Il semplice compito di schiacciare un pulsante produce uno stimolo che attiva simultaneamente 40 aree cerebrali diverse
Una delle innovazioni principali nel campo delle Neuroscienze e’ la recente tecnica dell’optogenetica che permette di attivare in modo selettivo gruppi specifici di neuroni. Questo metodo ha grandi potenzialita’ perche’ permette non solo di ‘correlare’ attivita’ nervosa con stimoli, risposte, o comportamenti cognitivi, ma permette direttamente di stimolare il cervello e osservare gli effetti di tale stimolazione. Questa tecnica ha grandi potenzialita’ per capire le anormalita’ di circuito che sono la probabile causa di disturbi psichiatrici e dello sviluppo cognitivo, che rappresentano la grande maggioranza delle patologie del cervello [n.d.r. piu’ del 75-80% delle patologie del cervello sono psichiatriche].
Il professor Corbetta non ha dubbi: “non credo alle grandi teorie, credo alle teorie locali che spiegano cose locali; se prendiamo per esempio bambini con autismo, non credo che riusciremo mai a curarli basandoci su una teoria globale dell’autismo”.
Diagnosticare su base sindromica significa ricondurre dei sintomi (syn-dromé in greco antico significa letteralmente confluenza) a un quadro clinico che storicamente si è consolidato nella letteratura clinica, e che viene tenuto presente dal medico in sede di esame obbiettivo. “La diagnosi quindi avviene sulla base di sintomi e segni, che possono essere altamente codificati come nel manuale DSM, ma non su dati biologici certi, ad esempio un test su un campione di sangue o un tipo di brain scan cerebrale. La speranza –continua Corbetta– e’ che nel futuro informazioni comportamentali verranno combinate con biomarker obbiettivi per una diagnosi piu’ accurata di disturbi come l’autismo, schizofrenia o il disturbo bipolare”.
“Nell’Autism spectrum disorder – continua infatti Maurizio Corbetta – c’è dentro di tutto: nuovi dati suggeriscono problemi con lo sviluppo di circuiti nervosi durante lo sviluppo: vi sono ponti tra assoni (i cilindrassi dei neuroni su cui viaggia l’impulso) che non si osservano in assoni di neuroni normali, c’è una maggiore dendrizzazione locale (i dendriti sono prolungamenti più brevi e sottili che raccolgono i segnali), associata a una minore dendrizzazione a distanza… questi dati suggeriscono diverse ipotesi, ma gli unici dati biologicamente certi potranno arrivare solo dallo studio di attività neurofisiologiche localizzate, vedendo quali effetti si producono, potendo oggi, con l’optogenetica, attivare o disattivare a piacere circuiti specifici, o da studi sull’intero cervello utilizzando metodi di neuroimaging metabolico e elettro-magnetico”.
L’optogenetica, tecnica che si basa sulla possibilità di inserire nei neuroni, avvalendosi di Dna virale, proteine di membrana capaci di bloccare o attivare la depolarizzazione che induce lo spike sinaptico mediante deboli impulsi laser, difficilmente si potrà sperimentare direttamente su esseri umani (a causa della sua invasività), ma è oggi la tecnica maggiormente avanzata per ottenere importantissime informazioni in materia di neurofisiologia.
A seconda delle frequenze luminose ricevute, le opsine aprono e chiudono canali transmembrana che fanno passare attraverso la parete del neurone ioni (atomi dotati di carica elettrica positiva o negativa), i quali sono responsabili della creazione di una differenza di potenziale elettrico tra ambiente interno e ambiente esterno alla cellula. Se entreranno ioni positivi si scatenerà lo spike d’azione che propagherà il segnale, se invece entreranno ioni negativi, l’attività di segnalazione della cellula risulterà inibita: è a seconda dei neurotrasmettitori e recettori coinvolti, che il messaggio viene codificato dai neuroni come eccitatorio o inibitorio.
L’optogenetica, come un vero e proprio interruttore elettrico, consente pertanto di determinare il ruolo delle diverse popolazioni di neuroni, controllandole in modo selettivo e preciso, e potendo esaminare le facoltà comportamentali conservate, o artificialmente indotte, oppure soppresse nel soggetto sottoposto a sperimentazione.
Le opsine sono note fin dagli anni ’70, per essere state individuate sulla parete di alcune alghe e batteri, ma, solo oggi (a distanza di diversi anni dalle prime pionieristiche sperimentazioni avvenute in Giappone, che purtroppo per molto tempo non sono state prese in giusta considerazione dalla comunità scientifica internazionale), si iniziano a usare proficuamente nei laboratori.
“In neurofisiologia, negli ultimi venticinque anni si sono fatti passi da gigante nel capire che informazione e’ codificata dai neuroni. David Hubel e Torsten Wiesel (Nobel nel 1981) registrando potenziali d’azione, cioe’ la scarica neuronale, in corteccia visiva sono riusciti a dimostrare che gli stimoli raccolti dalla retina venivano elaborati nelle colonne corticali, e ricondotti a pattern di linee diversamente orientate nello spazio. Piu’ recentemente si e’ dimostrato che neuroni in aree piu’ associative codificano per stimoli complessi (facce, posti, condizioni linguistiche). Si e’ anche scoperto che il cervello non funziona a “compartimenti stagni”: esiste sempre un network di regioni che funzionano insieme. Anche quando il compito e’ semplice come schiacciare un pulsante a uan luce vi soon dozzine di aree corticali e sottocorticali che vengono attivate” spiega Corbetta.
Infine stimoli sensoriali che sono importanti per una decisione vengono ‘pesati’ in aree motorie per decidere su cosa fare. Ad esempio nel caso in cui si e’ indecisi se mangiare una mela o una banana, si e’ visto che segnali per entrambi gli stimoli e decisioni possibili sono presenti simultaneamente in aree sensoriali e motorie. Questo modello, cosi detto ‘feedforward’, perche’ basato sull’attivazione sequenziale di stimoli sensoriali che vengono elaborati dal semplice al complesso fino al raggiungimento di una decisione motoria ha avuro molto successo e rappresenta il paradigma dominante in neuroscienze oggi.
Pero’ nuove scoperte negli ultimi dieci anni hanno dimostrato che anche in assenza di stimoli, risposte e decisioni si osservano pattern di attività ben strutturati nello spazio e nel tempo, i quali assomigliano moltissimo a quelli coinvolti quando si fanno delle cose. Per esempio nel sonno, si osservano modelli di attività neurale sincronizzata, che sembrano riattivare gli stessi networks di neuroni attivi durante la veglia. In altri studi si e’ visto che dopo l’esecuzione di un nuovo compito circuiti attivati dal compito continuano a ‘risuonare’ anche a riposo come se mantenessero una memoria di quello appena fatto.
Questo significa che i robot antropomorfi, nei quali si stava finora cercando di inserire algoritmi di intelligenza artificiale, che permettessero di avvicinarsi sempre più al comportamento umano, seguivano una impostazione filosofico-interpretativa dell’attività cerebrale non realistica, e, di conseguenza, una impostazione metodologica di ingegnerizzazione hardware e software completamente inadeguata.
Nel prossimo articolo, sempre grazie alla disponibilità del professor Corbetta, spiegheremo perché le esperienze nel campo della bioingegneria sono comunque state utili a correggere la logica della ricerca neurofisiologica, ed entreremo maggiormente nel dettaglio delle attuali opportunità teoriche e pratiche a disposizione della ricerca di base, entrando anche nel merito della la teoria dei neuroni specchio.